Testo dell’intervento di don Mauro Pancera di sabato 16 Novembre 2024 all’incontro per educatori e catechisti della Zona Pastorale.
Il 2025 è l’anno del “Giubileo”. Un nome particolare che sembra dal nome di uno strumento, lo yobel che era utilizzato per indicare l’inizio del Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Questa festa per gli ebrei ricorre ogni anno, ma assume un significato particolare quando coincide con l’inizio dell’anno giubilare che secondo il Levitico doveva essere convocato ogni 50 anni.
Bonifacio VIII nel 1300 ha indetto il primo Giubileo, chiamato anche “Anno Santo”, perché è un tempo nel quale si sperimenta che la santità di Dio ci trasforma. Dal 1330 in poi prima si celebrava ogni 100 anni, poi 50 anni nel 1343 da Clemente VI e poi ogni 25 nel 1470 da Paolo II. Vi sono anche momenti ‘straordinari’: per esempio nel 2015 papa Francesco ha indetto l’Anno della Misericordia. Diverso è stato anche il modo di celebrare tale anno: all’origine coincideva con la visita alle Basiliche romane di S. Pietro e di S. Paolo, quindi con il pellegrinaggio, successivamente si sono aggiunti altri segni, come quello della Porta Santa. Partecipando all’Anno Santo si vive l’indulgenza plenaria. Unito al giubileo c’è il tema del pellegrinaggio, una sorta di viaggio, di cammino compiuto non da un turista o un vagabondo; non da una persona che non sa cosa fare o dove andare. È un viaggio compiuto dal pellegrino. Allora proviamo a capire chi è il pellegrino, quali sono le sue caratteristiche, le sue parole, i gesti.
Partiamo con l’ascoltare alcuni brani tratti dall’AT e dal NT
Deuteronomio, 26 1-5.
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possiederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che il Signore tuo Dio ti darà, le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nel paese che il Signore ha giurato ai nostri padri di darci. Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore tuo Dio e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.
Gn. 12, 1-2 Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”.
Mc. 6-8 In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
- Chi è il pellegrino.
Il pellegrinaggio cristiano nasce nel IV secolo d.C. Non facciamo la storia dei pellegrinaggi: troppo luna e complessa. Serve per capire che è una pratica antica, conosciuta anche dalle altre religioni.
Quando pensiamo al pellegrino forse ci vengono in mente alcune immagini che abbiamo visto in quadri o film. Uno con la bisaccia e il bastone, o pensiamo a chi si incammina verso una meta famosissima: Santiago. Ma oggi pellegrino è chi prende un treno o un volo e va verso qualche destinazione tipicamente religiosa. Le storie dell’AT raccontano dei patriarchi che si mettono in cammino e possono essere considerati dei pellegrinaggi. Pensiamo solo alla vicenda di Abramo: lo abbiamo ascoltato poco fa. La storia dell’uomo è ricca di pellegrini e pellegrinaggi, di cammini e mete.
Chi è il allora il pellegrino? Ci lasciamo guidare dall’immagine che la parola stessa ci racconta. Letteralmente pellegrino (per- agre) è uno che cammina per i campi, attraversa i campi. I campi sono fuori dalla città, dal centro abitato, dai luoghi di incontro. Il peregrinare anticamente era l’andare qua e la, fuori dalla propria terra. Il pellegrino è uno straniero, un forestiero che è fuori dalla città. Già questo ci da alcune indicazioni interessanti. Ci dice che è una persona che cammina, che non è ferma: è in movimento. È un forestiero, uno straniero, non appartiene ad una terra specifica, ma la attraversa. Attraversa luoghi. La natura del pellegrino è il cammino. Questo è quello che lo contraddistingue. Il cammino è la prima caratteristica del pellegrino.
Cammina verso dove? Verso chi? Perché cammina? O ancora potremmo chiederci: quando si diventa pellegrini? Dal primo passo fuori casa? Prima ancora di mettersi in cammino? Il Pellegrino è colui che si mette in strada e riparte: segna una pausa nel ritmo della propria vita. Essere pellegrini e lasciare il proprio luogo era rompere con il quotidiano e riprendere il libro della propria vita in modo pieno, forse più consapevole, perché c’è una meta che mi aspetta. Il Pellegrino in qualche modo ha accettato di partire e nella strada che deve percorrere tende all’essenziale. Il Pellegrino se lo vedevi si riconosceva. Aveva un abbigliamento. Una bisaccia o uno zaino: sa bene che non deve portarsi appresso pesi inutili o un bagaglio troppo pesante. Si rischierebbe di fermarsi, di tornare indietro magari di non arrivare alla meta. Il Pellegrino allora si riconosce anche dal bagaglio che porta con sé, da quello che decido di mettere dentro allo zaino che diventa parte di me per tutto il tempo del viaggio. Non è inusuale trovare pellegrini che partono con tante cose e mano a mano che proseguono con il cammino alleggeriscono il bagaglio: il Pellegrino è colui che è capace di tornare all’essenziale. L’essenziale forse per l’uomo di oggi e la capacità di ritornare a sperare? Questo forse lo vedrete con il vescovo. Un’altra caratteristica che aveva il Pellegrino nella immagine comune è il bastone: un tempo serviva per proteggersi dai briganti o da qualche animale che si incontrava lungo la strada. Di fatto il bastone serve per camminare, serve per appoggiarsi quando si è stanchi, è un appoggio, una sicurezza. Qualche cosa di sicuro in un momento in cui forse le sicurezze possono vacillare. E da ultimo…c’era lui: un mantello che serviva a ripararsi. Era una coperta per la notte, un riparo per le giornate fredde, e siccome il viaggio era lungo e disagevole, cosa aggiungevano? Una specie di mantellina piccola da rinforzo: la pellegrina. Sì, perché il pellegrino va custodito: non sta andando in vacanza, sta raggiungendo una meta per la quale fa fatica, soffre a volte, fa sacrifici. Contrariamente al vagabondo o all’esiliato, è la meta che attrae il pellegrino con tutto il suo essere. Sarebbe interessante fermarsi e pensare a quale abbigliamento ha oggi il pellegrino del nostro tempo. Anticamente per raggiungere la destinazione esistevano delle vie non tracciate bene e allora…il pellegrino aveva la sua bussola. Dio. Si fidava, di Lui e degli altri pellegrini. Il pellegrino pur essendo solo aveva un profondo senso di comunità, era parte di una realtà più grande.
Ha un suo passo. Il passo del pellegrino è la ricerca non solo della meta, ma di sé stesso: ha a che fare con qualcosa di grande, quasi una nostalgia di infinito, di trascendenza, di un di più da vivere. Il pellegrino simboleggia bene la nostra vita terrena. Ci ricorda che siamo fatti di cielo e che il nostro cammino su questa terra altro non è che un pellegrinaggio verso la meta definitiva: la “Gerusalemme celeste”. È nella prospettiva di un’esperienza profonda di Dio che il pellegrino si mette in moto, nella speranza che magari possa anche verificarsi qualche cambiamento a livello esistenziale.
- Le parole del pellegrino
Il pellegrino ha anche un suo linguaggio: quello del silenzio. Chi fa esperienza di camminare a lungo, vive il silenzio, che non è assenza di parole, ma di ritorno anche qui all’essenziale. Non ritorno alle parole, ma alla Parola. In qualche modo tutto si unifica: non ci si disperde, nemmeno nel linguaggio. Lungo il cammino il pellegrino si nutre di interiorità. C’è un proverbio dei tuareg questo popolo chi vive nel deserto dove è stato anche per tanto tempo Charles de Focauld che viveva tra i Tuareg. Dicono così: ” il deserto è Dio, il silenzio e la sua parola. E il Pellegrino si nutre di questa parola.” Noi abbiamo un bruttissimo rapporto con il silenzio. A volte è un rapporto schizofrenico, perché se da un lato lo desideriamo, desideriamo fare silenzio oppure fare un ritiro spirituale in cui c’è silenzio, vogliamo fare il deserto nel momento del ritiro… dall’altro lato ci spaventa e non sappiamo più come stare in silenzio, perché sono troppo carichi di parole e di rumore. Forse il Pellegrino del nostro tempo, il pellegrino moderno dovrebbe ritornare al silenzio. In fondo anche il silenzio è una forma di preghiera, uno stare con Dio, anche il silenzio è un modo di sperare. Oltre al silenzio le parole del Pellegrino sono parole che si rivolgono a un “tu”, parlano al cielo, parlano a Dio. Le nostre parole a chi sono rivolte? Il Pellegrino può avere tante domande dentro di sé, ma poche parole dovrebbero accompagnarlo. Famosa è l’immagine del pellegrino russo che va ripetendo senza sosta quella famosa preghiera che diventata la cosiddetta preghiera del cuore: “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Anche il linguaggio del Pellegrino deve essere in grado di far entrare Dio dentro di quello che sta vivendo. Se usasse anche un linguaggio troppo forte forse rovinerebbe la sua essenza, e perderebbe una parte essenziale di ciò che è.
- I gesti del pellegrino
Il Pellegrino compie anche dei gesti che raccontano non solo il suo pellegrinaggio, possono raccontare anche la sua storia, possono raccontare le sue domande. Anche i gesti del Pellegrino sono gesti molto semplici ma non banali: raccontano la solennità di quello che sta vivendo. Il gesto tipico si manifesta attraverso quello che comunemente viene chiamato “ex voto”. Questa espressione indica delle immagini o degli oggetti che il pellegrino lascia nel luogo di arrivo del suo pellegrinaggio, proprio perché è arrivato alla meta e così facendo ha adempiuto a un voto. Quando parti per un pellegrinaggio e desideri raggiungere una meta, lo scopo del tuo camminare lo raggiungi quando arrivi lì nel luogo che hai scelto. Spesso è un voto, più o meno formulato, che mette in marcia il pellegrino. Il voto di rendere grazie per una guarigione, per un’esperienza di salvezza, la riconoscenza per la vita stessa; può anche semplicemente essere solo la speranza di metterti nelle mani di Qualcuno. Ed è proprio quando arrivi che deponi l’ex voto: accendere un cero, abbracciare la statua del Santo (questo lo si fa a Santiago), deporre una preghiera. Spesso i gesti erano accompagnati anche dalle lacrime per essere arrivati. E dentro quelle lacrime versate, non c’è solo il camino tuo percorso tutto quello che porti dentro di te e che o deponi nel luogo dove sei arrivato, o lo affidi.
Spesso si dimentica che il Pellegrino non solo doveva affrontare il viaggio di andata verso la meta del suo pellegrinaggio via ma doveva affrontare anche la strada del ritorno. Il ritorno per il Pellegrino era sempre diverso rispetto all’andata. Nell’imboccare la via del ritorno il Pellegrino ama portarsi via un po’ della terra del luogo in cui è arrivato perché ha bisogno di ricordarsi dove è stato.
In passato, il pellegrinaggio era contrassegnato da una “ritualità” che aveva il compito di evidenziare tale passaggio: scrivere il testamento, indossare vesti e oggetti simbolici che abbiamo visto prima, accomiatarsi dalle persone care e da ciò che era familiare. Non ci dimentichiamo che, nei casi di pellegrinaggi impegnativi (Terra Santa), tutto ciò poteva avere il sapore di un addio! In virtù di questa presa di distanza dal quotidiano, la vita viene orientata nell’ottica del raggiungimento di una meta, la quale non costituisce semplicemente il punto di arrivo, ma diventa essa stessa (la meta) il “criterio” per l’organizzazione del pellegrinaggio e per ogni eventuale scelta – anche imprevista – che dovesse rendersi necessaria lungo il cammino.
Questo e ancora di più è il pellegrino.
Che senso ha oggi parlare di pellegrini? Il pellegrino del XXI secolo, spesso è una persona o un gruppo che raggiunge un luogo Santo usando mezzi moderni per non perder tempo, dormire magari comodamente in qualche albergo stellato, possibilmente con pensione completa e usare anche in loco mezzi di trasporto agevoli per non fare troppa fatica e rientrare a casa dopo qualche giorno. Una sorta di “turismo” della fede.
Essere pellegrini oggi forse è un atteggiamento più interiore. Anche oggi chi vuole e chi ne ha la possibilità, certo, può affrontare pellegrinaggi come un tempo ed essere pellegrini così che camminano, che fanno un po’ si penitenza, che partono per un voto fatto. Il pellegrino però, indipendentemente dalla sua età e dal suo credo è alla ricerca e ha la possibilità di trovare la Via, di vedere il suo cambiamento prima e dopo il viaggio. Essere pellegrini significa mettere tutto ciò che noi siamo in quello che stiamo facendo.
Da cristiani dobbiamo pensare anche ad un percorso interiore, dobbiamo interrogarci in un confronto quotidiano con sé e con gli altri. Nei nostri pellegrinaggi “moderni” il solo stare insieme, il condividere un cammino, il guardare ad una meta ci fa sentire comunità cristiana: e ne abbiamo tanto bisogno di riscoprire questa dimensione.
- Conclusione
Essere pellegrini nel vero senso della parola è qualcosa che ti tieni dentro per sempre, significa uscire dalle tipiche abitudini del viaggio ed entrare in una realtà profonda, in sintonia anche con il mondo che ti circonda. Un mondo differente da quello nel quale viviamo tutti i giorni, con una sua storia, un suo significato. Camminare non per sentirsi turisti, ma per metterci in relazione con il Creato e con Dio, entrare lentamente nella strada, passo dopo passo. Ancora oggi, dunque, farsi pellegrini e mettersi in cammino significa vivere il distacco dalle cose di ogni giorno, rinunciare a oggetti e abitudini che nella ripetitività quotidiana si ritenevano indispensabili. Ecco perché è importante vivere con sapienza questo processo. Per il giubileo è stato scelto il motto: “Pellegrini di speranza”. Davvero possiamo esserlo. Pellegrini nel senso che abbiamo cercato di spiegare: con un certo atteggiamento, uno stile, con i gesti e le parole da usare.